Le parole per dirlo
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Non smetterò mai di aspettarti

25/08/2013

Padre Nostro nei cieli
che io sia nuvola
e come lei leggera
E liberami dal male
da tutti i mali.*

La conoscevi la storia di Hachi? Io ho visto il film. È basato su una storia vera.
Se tu fossi viva ti chiamerei per raccontartela.

Ogni mattina il professor Wilson prende il treno per andare a lavorare. Un giorno trova un cucciolo di cane e lo porta a casa. Nasce una tenerissima storia d’amore e di amicizia. Il cane tutti i giorni accompagna il professore al treno poi va a casa. Torna alla stazione alle 5 del pomeriggio, quando il professore rientra.

Ma un giorno il professore non torna e non tornerà mai più. Ha avuto un ictus durante la sua lezione di musica.
Hachi lo aspetterà per sempre davanti alla stazione. Fino al giorno della sua morte.

È quello che facciamo noi Sopravvissuti. Vi aspettiamo fino alla fine dei nostri giorni.

Enzo e mamma sono stati da me per un giorno. È impossibile cercare consolazione nel dolore dell’altro. Stare insieme per noi è solo strazio.

Passa il tempo ma noi siamo lì: dopo una lunga notte fatta di silenzi storditi e pianti soffocati, al mattino presto siamo usciti da casa tua e ci siamo ritrovati, noi tre soli al mondo, a camminare sotto una pioggia spietata e un cielo nero. Disperati, disorientati, smarriti. Senza parole. Oggi come allora, è così.
Abbi pietà di noi.

Li ho portati con me a passeggiare nei campi, al tramonto, seguendo tracce di territori che pensavo sommersi.

«Mamma ma quando hai partorito Enzo eri da sola?»
Il suo primo figlio, a 20 anni e senza essere sposata. Una vergogna, per tutti. Se ne andò a Ischia in una Casa per ragazze madri. Cinque mesi prima di partorire, si occupava delle pulizie. Nessuno lo volevo quel figlio. Lei sì.
«Ero sola, sì. Però il giorno dopo arrivò mamma, nonna Anna. E al molo al ritorno trovammo mio padre ad aspettarci».
Odio potente come l’amore.
Amore potente come la morte.
Quanto dolore non nostro, Bigols mia, abbiamo ereditato?

L’ultimo ricordo che ho di babbo è la mattina quando è partito per l’America.
Uscimmo dal portone, lui si fermò prima di salire in macchina, si voltò a guardare la finestra di casa nostra.
«Tonino…» disse mamma
«È l’ultima volta che vedo questa casa. Io qui tornerò in una bara».
Non lo vedemmo più. Passarono quasi tre mesi, accompagnato da mamma tentò di salvare il suo cuore malato prima in America e poi in Inghilterra. Dove è morto.
Prima di andare in aeroporto mi portarono alla metro, dovevo andare a scuola. Metro, funicolare. Bagnoli-Vomero, ero al IV ginnasio.
«Non devo piangere, non devo piangere».
E così lo salutai, baciandolo sul viso più velocemente possibile. Trattenendo le lacrime.
Arrivata ai binari finalmente crollai, piansi fino a singhiozzare per tutto il viaggio in metro.
C’è una parte di me che è ancora lì, alla stazione di Bagnoli che aspetta: lui tornerà, tornerà a prendermi.
Quanto dolore, Bigols mia, per una vita sola.

Ho iniziato a cucinare soprattutto i dolci, faccio anche il pane, lo impasto a mano.
Lo so fa molto ridere, considerando la mia rinomata imbranaggine fra i fornelli.
Solo dopo ho realizzato che fare i dolci era una delle tue passioni.

I morti sono in mezzo in noi. Stanno con noi.
S. Agostino diceva: «Quelli che ci hanno lasciato non sono assenti, sono invisibili, tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri pieni di lacrime».

Impasto farina, acqua e lievito,
socchiudo gli occhi e sento le tue mani sfiorare le mie.
Quanto mi manchi.

Mi affido a quello in cui non credo.
Mi affido al Mistero e al silenzio. Mi piace stare sola.
Le letture, le passeggiate all’alba e al tramonto sono le mie preghiere laiche.

Ho smesso di chiedere spiegazioni.
«Non cercare troppo Altrove, c’è un Altrove dove la follia in agguato si impadronirebbe di te»

Io ti aspetto, Bigols, amatissima sorella mia. Non smetterò mai di aspettarti.
La notte esco in giardino, mi siedo sulla panchina, guardo le stelle.
E sussurro al cielo il tuo nome dolcissimo:
Laura.

*(Il tempo è un Dio breve – Mariapia Veladiano)